articolo per Osservatorio Balcani e Caucaso, 19 giugno 2017
Dopo lo sgombero delle baracche a Belgrado ad inizio maggio, che ha portato al trasferimento nei centri di accoglienza governativi dei circa mille migranti che avevano trovato rifugio nei magazzini abbandonati nei pressi della stazione, il quartiere Sava Mala si è svuotato. Lo sgombero dei migranti e la distruzione degli alloggi di fortuna in cui avevano trovato rifugio ha sollevato molte critiche, soprattutto da parte dei volontari che da mesi fornivano loro supporto materiale e umano, nonché dai migranti stessi, alcuni dei quali avevano annunciato uno sciopero della fame come ultimo, disperato tentativo di impedire lo sgombero. Altri si erano dati alla macchia pur di non essere trasferiti nei centri di ricezione statali. Tra loro molti minori non accompagnati di nazionalità afghana e pakistana, di cui si sono perse le tracce.
I migranti rifiutano il trasferimento nei centri governativi sia per paura di essere identificati, e quindi impossibilitati a proseguire il viaggio verso i paesi dell’Unione Europea, trovandosi costretti a richiedere asilo in Serbia, sia per il timore di dover vivere in centri di accoglienza sovraffollati, privati della possibilità di muoversi liberamente e, pertanto, di poter attraversare le frontiere. Inoltre, la maggior parte dei centri governativi si trova in zone periferiche della Serbia, dove l’accesso ai centri urbani è reso difficoltoso anche perchè spesso gli autisti degli bus si rifiutano di caricarli a bordo.
La situazione di isolamento rende ulteriormente complicato anche il contatto con i passeur che facilitano il viaggio verso l’Europa, allungando ancora di più i tempi di permanenza dei migranti in Serbia. Del resto, richiedere asilo nel paese non sembra una via percorribile: al di là delle scarsissime opportunità di inserimento lavorativo, sono solo 88 le persone a cui la Serbia ha riconosciuto lo status di titolare di protezione internazionale dal 1 aprile 2008 (anno di entrata in vigore della legge sull’asilo) ad oggi. La Serbia, infatti, cerca di accogliere il minor numero di richieste possibile, e applica automaticamente la clausola della safe third country: se il paese precedente da cui il migrante è transitato (nella maggior parte dei casi Macedonia e Bulgaria) è considerato sicuro, allora la richiesta di asilo viene respinta senza essere esaminata.
Dalle baracche di Belgrado ai boschi del confine croato
A seguito dello sgombero delle baracche, alcuni gruppi di attivisti e volontari hanno seguito i migranti nei campi di accoglienza al confine con la Croazia. Ora si occupano di fornire loro verdura e frutta fresca per integrare la scarsa qualità e varietà dei pasti offerti nei centri di ricezione governativi. La No Name Kitchen , assieme a Belgraid , due gruppi di volontari che prima distribuivano viveri e beni di prima necessità nell’area attorno alla stazione di Belgrado, da maggio si sono spostati a Šid, una città al confine con la Croazia dove si trovano il centro di transito di Adaševci, ospitato in un ex motel, dietro al quale sono state installate alcune grandi tende per ovviare al sovraffollamento, e Principovac, un ex ospedale psichiatrico, distante 100 metri dalla frontiera con la Croazia e un’ora di cammino dal villaggio abitato più vicino.
Le condizioni dei campi sono invivibili, riferiscono i migranti e i volontari, a causa del sovraffollamento, della scarsa qualità del cibo e delle pessime condizioni igieniche. La settimana scorsa alcuni dei circa 1.500 ospiti del campo di Adaševci hanno protestato per l’impossibilità di dormire, mentre molti di loro si recano nel bosco dietro al campo per poter cucinare, bruciando il legno degli alberi. Si stima che siano circa un centinaio i migranti che vivono nel bosco, da loro chiamato “jungle”, in modo da poter tentare di attraversare il confine quando cala il buio, salendo sui treni e nascondendosi nei vagoni. Mentre alcuni di loro sono morti nel tentativo di saltare sui treni al buio, altri hanno trovato distrutti i loro alloggi di fortuna, che la polizia serba demolisce regolarmente per impedire loro di rimanere.
Nel campo di Obrenovac, 45 km da Belgrado, si trovano circa 1,350 persone, riporta l’associazione Are you Syrious?, di cui 374 minori non accompagnati. Qui manca l’acqua calda, e le condizioni igieniche dei bagni sono così spaventose che i migranti temono il diffondersi di infezioni. Se le condizioni di vita nei magazzini abbandonati di Belgrado, fatiscenti e in disuso, erano state definite inumane, quelle dei campi governativi e dei boschi circostanti non sembrano essere migliori. Perché allora i migranti sono stati trasferiti altrove? Non erano tanto le condizioni igieniche a preoccupare il governo serbo, quanto la visibilità dei migranti in un’area destinata alla cosiddetta “riqualificazione urbana”.
La scomparsa di Savamala
Lo sfratto dei migranti dall’area attorno alla stazione di Belgrado fa parte di un più ampio progetto che mira alla riqualificazione di Savamala, il quartiere di Belgrado che si trova nei pressi della stazione di treni e autobus. La ristrutturazione di Sava Mala si qualifica in realtà come gentrificazione. La distruzione dei magazzini in disuso di Savamala è servita a fare spazio all’ampliamento del contestato “Belgrado sull’acqua”, un progetto urbanistico multi-miliardario tra il governo serbo ed Eagle Hills, investitore immobiliare di stanza ad Abu Dhabi.
“Belgrado sull’acqua” prevede la costruzione di appartamenti di lusso e del più grande shopping mall d’Europa sulla riva del fiume Sava. Un piano approvato dal governo serbo e dalla municipalità di Belgrado senza consultare la cittadinanza e, a detta degli attivisti del movimento “Non (affon)diamo Belgrado” che da due anni si oppongono al megaprogetto, in assenza delle dovute autorizzazioni. La demolizione degli edifici e magazzini abbandonati dell’area era già cominciata ad aprile 2016, quando i magazzini abbandonati di via Hercegovačka erano stati distrutti in una notte da uomini coperti da passamontagna, senza che la polizia intervenisse. Ad un anno dalla demolizione, i responsabili dell’operazione non sono ancora stati identificati. Con l’arrivo dei migranti, nonostante il disagio provocato dal sovraffollamento, l’area di Savamala era stata rivitalizzata. Negli spazi attorno alla stazione erano sorte nel tempo attività autogestite volte a rendere più umane le condizioni di vita delle persone di passaggio. Negli utili tempi i volontari internazionali e i rifugiati stessi avevano dato vita ad una cucina collettiva, ad una scuola di lingue autorganizzata, e anche la cucina autogestita dalla No name kitchen era diventato uno spazio di discussione e scambio di conoscenze che serviva a creare comunità, scambiare storie, ed elaborare soluzioni comuni.
Nel quartiere di Savamala, dunque, negli ultimi anni si sono incrociati due diversi destini: quello degli abitanti di Belgrado, che si trovano progressivamente privati degli spazi culturali ospitati a Savamala, in nome di una riqualificazione urbana che risponde ad un piano di ristrutturazione di tipo neoliberista; e quello dei migranti bloccati lungo la rotta balcanica e incapacitati a proseguire oltre, che ora hanno perso gli alloggi di fortuna in cui avevano trovato temporaneamente rifugio. E se da un lato Belgrado sta perdendo lo spazio pubblico destinato ad attività culturali in nome di una privatizzazione selvaggia, dall’altro viene a mancare anche la sua parte più umana, quella fatta di centinaia di volontari che dall’estate del 2015 hanno popolato Savamala supportando con umanità le persone in transito.
Due facce della stessa medaglia
La gentrificazione di Savamala e l’espulsione dei migranti a Belgrado fanno parte di un progetto più ampio del governo serbo, che, se inizialmente aveva mostrato la sua faccia migliore all’Europa rendendosi disponibile a non opporsi al transito migranti che percorrevano la rotta balcanica, si è progressivamente adattato alle politiche restrittive europee.
Come ebbe modo di dichiarare l’allora primo ministro e ora presidente Aleksandar Vučić, il paese non intende farsi carico di quei migranti che l’Europa non lascia entrare. Pertanto accantona il problema, relegandolo ai margini della società e soprattutto lontano dagli occhi dei media e dell’opinione pubblica. Dal canto suo, l’Europa non sembra interessata a frenare le derive autoritarie del presidente Vučić, la cui elezione è stata salutata con entusiasmo da Bruxelles. Vučić rappresenta la stabilità nei Balcani, un leader progressista che dichiara di voler cambiare il paese e che ha aperto con decisione all’Unione Europea. Una stabilità che sembra però andare in direzione contraria rispetto alle richieste di diritti e di trasparenza avanzate dai cittadini serbi.